Perché nell’opinione pubblica del nostro Paese sembrano prevalere le ragioni di chi sostiene la “libertà di morire” anziché quella di vivere? A ben vedere, è un bel paradosso: nella coscienza degli italiani è infatti ancora ben radicata la preferenza per la vita rispetto alla morte, pare persino superfluo ricordarlo. Ma la cultura pubblica che respiriamo spinge tutta nella direzione diametralmente opposta, come nella negazione per via culturale e mediatica di un “favor vitae” tuttora largamente condiviso.
Il tema della narrazione prevalente centrata sull’autodeterminazione illimitata, che porta a chiedere di poter disporre della stessa vita, è una delle grandi questioni che chi crede nella piena dignità della vita umana sempre e in qualunque condizione deve saper affrontare, a partire dai dati di realtà. È evidente infatti che la domanda di assistenza ancora inevasa che sale da decine di migliaia di italiani in condizioni di malattia inguaribile, di disabilità grave, di assenza di consapevolezza di sé rende persino grottesco che si parli con tanta insistenza di “diritto di morire” da codificare nelle leggi.
Se spesso mancano le condizioni elementari per un supporto sanitario (e umano) all’altezza delle necessità – dall’assistenza domiciliare alle cure palliative, alla terapia del dolore – ha senso chiedere allo Stato procedure per alleggerire il fardello della sofferenza con la morte anticipata? Va reso operativo il diritto alla vita che appartiene a ciascuno di noi. (èv)