Il tasso di suicidio a livello mondiale è circa l’1,5 % di tutte le cause di morte, e la seconda causa di morte tra i giovani di età compresa tra i 10 e i 29 anni. L’Organizzazione mondiale della Sanità stima circa 880mila morti per suicidio ogni anno nel mondo; circa 4mila ogni anno in Italia. I morti per suicidio superano ogni anno le morti per attentati terroristici, conflitti bellici e calamità naturali messe insieme. I dati Istat dimostrano anche che tra le cause di morte prese come indicatori del livello di civiltà, sicurezza e problemi sociali che investono un Paese – ovvero omicidi, suicidi e vittime di incidenti stradali –, in Italia l’unico di questi indicatori a non essere diminuito negli ultimi 15 anni è proprio il tasso di suicidi. È chiaro che poco si è fatto per ridurre questa emergenza, di cui troppo poco si parla e che potrebbe essere efficacemente contrastata. Il suicidio è il risultato di una complessa interazione di fattori psicologici, biologici e sociali. I dati della ricerca scientifica indicano che il disturbo psichiatrico è un fattore contribuente ma non esclusivo al rischio di suicidio. Alla base del suicidio può essere spesso riconosciuto un ingrediente base, ossia una situazione di dolore psicologico. Le fonti principali di dolore psicologico alla base del suicidio (vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione) hanno origine nei bisogni frustrati e negati che in alcuni casi arrivano a costituire una condizione insopportabile per la quale la morte sembra il rimedio più adeguato. Il suicidio è spesso il risultato della combinazione di un dolore insopportabile e della mancanza della speranza di poter essere aiutati.
Appare dunque chiaro che sia nel caso della presenza di un disturbo psichiatrico sia nel caso di un gesto di disperazione il suicidio può essere affrontato.
La maggior parte degli individui a rischio di suicidio vuole assolutamente vivere ma non è in grado di vedere possibili alternative ai propri problemi. La maggioranza di essi fornisce chiari segnali sulle proprie intenzioni suicidarie, ma gli altri spesso sono incapaci di coglierne il significato, oppure non sanno come rispondere alla richiesta d’aiuto. Non raramente anche chi coglie alcuni elementi di preoccupazione – sia egli un familiare, un medico o uno psicologo al quale il potenziale suicida si è rivolto – tende a essere reticente a parlare apertamente dell’idea del suicidio. Parlare del suicidio non induce nell’altro un proposito suicidario; al contrario, l’individuo si sente sollevato e ha l’opportunità di sperimentare un contatto empatico. Recenti studi scientifici hanno accertato infatti che indagare senza reticenze la presenza di possibili idee e propositi suicidari non aumenta il rischio di suicidio nei mesi o anni successivi l’intervista clinica in cui se ne è parlato; al contrario, la maggior parte degli individui sui quali sono state condotte le sperimentazioni ha riportato una riduzione del rischio di suicidio. Il suicidio è, del resto, uno dei tabù più radicati nella nostra società. Parlare dell’argomento suscita pudore, riluttanza ed esitamento. Persino tra gli operatori della salute il tema è in gran parte poco affrontato. I dati della letteratura scientifica riportano che frequentemente le persone che hanno commesso il suicidio nei mesi e settimane precedenti la morte si erano recati da un operatore della salute. Ciò implica che i programmi di prevenzione del suicidio devono sensibilizzare tutta la popolazione.
Il problema del suicidio è ancora più grave tra i giovani e i giovanissimi. Come abbiamo accennato all’inizio, il suicidio nel mondo è la seconda causa di morte tra i 10 e i 29 anni. In Italia le cose non vanno meglio. I dati raccolti all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma tra il 2011 e il 2018 segnalano un aumento di 20 volte del numero delle consulenze effettuate in urgenza da specialisti neuropsichiatri dell’infanzia e dell’adolescenza per ideazione suicidaria, tentativo di suicidio e comportamenti autolesivi
nei giovani di età compresa tra i 10 e i 18 anni. Inoltre le misure restrittive durante la pandemia da Sars-Cov2 hanno impattato significativamente sulla salute mentale dei bambini e degli adolescenti portando a un aumento delle richieste di aiuto per comportamento suicidario. Per adesso, possiamo dire che in tutte le fasce di età non si registra un aumento dei tassi di suicidio, sebbene si possa registrare un significativo aumento della sofferenza psichica e verosimilmente dei comportamenti suicidari. La gestione clinica post-dimissione dei pazienti ricoverati per ideazione suicidaria e tentativo di suicidio risulta spesso complessa, caratterizzata da stati critici intermittenti che portano a nuovi accessi al Pronto Soccorso e spesso a ricoveri ripetuti. Tale fenomeno denominato revolving door sovraccarica i servizi ospedalieri dedicati all’urgenza e aumenta il rischio di cronicizzazione dei disturbi psichiatrici sia a esordio in età evolutiva che nelle altre fasi della vita.
Per far fronte a questa emergenza l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù ha predisposto un servizio dedicato alla gestione dell’autolesionismo e alla prevenzione del suicidio in età evolutiva che si prende carico dei giovani giunti al Pronto Soccorso per ideazione suicidaria, tentativo di suicidio o comportamento autolesivo, avviando quanto prima un inquadramento diagnostico e un trattamento integrato farmacologico per il paziente e psicoterapeutico per l’intero nucleo familiare. Presso l’Azienda ospedaliera universitaria Sant’Andrea-Sapienza Università di Roma è attivo l’unico Servizio per la Prevenzione del Suicidio in un ospedale pubblico in Italia. È chiaro però che il suicidio non può essere contrastato solo a livello sanitario. La prevenzione del suicidio è fondamentalmente un problema sociale. Ricordiamo che la nostra Costituzione garantisce il diritto alla salute intesa – secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – come «un completo stato di benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di uno stato di malattia o di infermità». I risultati degli effetti delle politiche di prevenzione in diversi Paesi dimostrano che prevenire la sofferenza psicologica e le malattie psichiche porta alla riduzione del suicidio e anche alla riduzione delle più diffuse malattie fisiche. È anche dimostrato scientificamente che le politiche di tutela della salute mentale riducono significativamente i costi della sanità pubblica e aumentano la qualità della vita dei cittadini. Infine, sempre i dati scientifici dimostrano che le due condizioni necessarie per prevenire malattie psichiche e il suicidio sono la lotta alla povertà e l’investimento sull’assistenza sociale. La prevenzione del suicidio, sia come rafforzamento degli interventi sanitari più appropriati, sia come lotta alla povertà e all’isolamento sociale, appare dunque un problema che deve essere affrontato a livello politico.
Il Tavolo permanente per la Salute mentale presso l’Ufficio Cei per la Pastorale della Salute