di Claudio Sartea
Si fa un gran parlare di un 'diritto a morire', che sembra un sinonimo del 'diritto alla morte'. E allora proviamo a pensarlo in termini giuridici.
Un diritto soggettivo è la rivendicazione di un bene della vita che abbia rilievo giuridico: rivendicazione cui l’ordinamento attribuisce rilevanza sociale e accorda tutela. La morte è un bene? È un bene di rilievo giuridico? Che cosa sia la morte lo meditiamo da millenni, al di qua delle risposte religiose: figuriamoci se dovessimo conferirle un contenuto giuridico, in uno Stato laico. Per di più, la tutela ordinamentale dei beni della vita è sempre orientata al futuro, al contrario chiuso dalla morte.
Qualcuno aggiunge: morte dignitosa, e crede di aver risolto l’inghippo. Ma la dignità è categoria ambigua, e lo diviene ancor più quando la si
applica alla morte, oggetto sconosciuto. E anche se includiamo la morte nella vita, la sua dignità rimane problematica, visto che l’indagine attorno a cosa sia una vita degna abbiamo preferito interromperla dopo aver constatato i pessimi risultati di pubblicazioni pseudoscientifiche sulle 'vite non degne di essere vissute'. E allora? Quale sarebbe propriamente il contenuto di un diritto a morire? Né la morte, né la morte cosiddetta dignitosa: semmai, la pretesa di essere aiutati a 'farla finita' secondo le modalità che ciascuno considera degne di sé e dei propri ideali. Meglio se questo aiuto proviene da professionisti della salute, più esperti e competenti nell’evitarmi dolori aggiuntivi, o lungaggini agoniche che ritengo insopportabili.
Ricapitolando. Non ha senso giuridico parlare di diritto alla morte, né parlare di diritto alla morte dignitosa. Sensato forse sarebbe prevedere legalmente l’efficacia vincolante di una richiesta di uccisione rivolta, a certe condizioni,
a operatori sanitari o affini. Ma così facendo si devono fare i conti con il giuramento ippocratico, il codice deontologico dei medici di ogni parte del mondo, il recente statement dell’Associazione medica mondiale, e tanti altri documenti che senza eccezioni dichiarano eutanasia e suicidio assistito incompatibili con l’attività medica. Bisognerà poi vedersela con il principio di indisponibilità della vita umana, l’ultimo, estremo presidio della funzione di garanzia della vita e della salute che – pandemia docet – nessuno mette in discussione quale finalità essenziale dell’esercizio del potere pubblico, persino in contrasto con molti altri diritti fondamentali di libertà dei consociati.
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