di DAVIDE RONDONI
Occorre trattare la morte con delicatezza. Così come merita delicatezza la vita. E certo le leggi dovendo definire, limitare, indicare possono essere delicate fino a un certo punto. Sono necessarie, ma non forniscono il punto di vista da cui guardare questioni così rilevanti come la morte e la vita. E tali leggi risultano sempre, inevitabilmente, “approssimative”, come approssimativa è ogni azione umana, ovvero tesa a un sempre maggior approssimarsi al proprio ideale, al proprio oggetto. La riflessione sulla morte ha bisogno di delicatezza.
Come è scritto nel testo sorgivo della nostra letteratura che, scritto 800 anni fa, non cessa di offrire il suo inesauribile tesoro. Anche su questo aspetto. Nel “cantico delle creature” Francesco d’Assisi, morente e molto ma-lato, chiama “sorella” la morte. Come chiama sorella la luna, l’acqua, e come, vertiginosamente, chiama sorella anche Chiara. Come fa a chiamarla così? La ritiene una cosa “buona”? No, la ritiene parte di un ordine che non è sua creazione, ma dell’Altissimu. Come il fuoco, l’acqua, la annovera tra le creature, appunto come sono le stelle, il vento, la terra. Nella visione di Francesco non c’è il nostro schematismo, la natura non è né buona né cattiva in sé. La natura non è “buona” madre, quando ti dona un panorama incantevole e invece “cattiva” matrigna quando ti porta la Sla o una alluvione.
La sua bellezza e la sua potenza, che l’uomo deve spesso contrastare e dinanzi a cui dev’essere umile – e Francesco e i suoi frati lo sapevano bene – fanno parte di un organismo non creato da noi. L’Altissimo Onnipotente è buono, secondo Francesco, non la natura. La bontà di Dio, dell’Altissimo, si mostra in Cristo che porta tutto verso la Resurrezione. Francesco si è convertito dinanzi al Crocefisso, non dinanzi al canto delle cinciallegre. Tutte le grandi cosmogonie di diverse tradizioni, intuiscono tuttavia che la morte, facendo parte dell’ordine delle cose, non è leggibile solo come elemento finale, se non dell’esperienza limitata dell’individuo. La visione che nell’organismo vivente e misterioso dell’Essere e dell’universo la metamorfosi sia una legge profonda abita tutti i grandi saperi.
È ovvio che l’individualismo contemporaneo, fondato sulla idea che l’Altissimo è l’essere umano, fatichi ad elaborare un rapporto con la morte. Da un lato la teme, dall’altro la evoca come soluzione alla sofferenza. San Francesco scrive “sorella morte” perché sa che anche essa è una creatura di tale grande organismo, e sa di non esser lui il Signore dell’universo, di non essere principio e fine della vita. Lo sguardo di povertà verso il mondo arriva a fargli dire che “io non sono mio”, e ad accettare la morte come una “sorella”. Questa delicatezza, fondata su una visione tutt’altro che dolciastra, giunge anche a lodare Dio per quelli che sopportano “infirmitate e tribolazione” e che perciò saranno “incoronati”. Che aggettivo! Così umano. Perché io voglio vedere “incoronati” mio padre e i tanti amici che hanno sopportato “infirmitate e tribolazione”.
Francesco poeta e santo ammalato lo sa: non meno che “incoronati” devono essere. E che tale corona sia fin d’ora posata sulla fronte di chi soffre, con la delicatezza della cura, della vicinanza, del rispetto è un compito che la legge può e deve evocare e favorire ma che spetta a tutti. Altrimenti la società si trasforma in una ferrea macchina che da un lato combatte anche in modo grottesco per la longevità, dall’altro favorisce la morte dei sofferenti.
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