Riassumere in poche parole oltre quattro anni di esperienza in ospedale non è facile. È stato un tempo che ha cambiato radicalmente la mia vita, come uomo e come sacerdote. Un periodo che mi ha insegnato che l’attenzione al mondo della salute – ai malati, ai loro familiari e al personale sanitario – non è una parte accessoria della pastorale, ma un punto centrale della vita della Chiesa e della mia vocazione.
È nel mondo della fragilità che ho potuto toccare con mano il Vangelo nella sua forma più pura. In questo mese missionario di ottobre, mi piace pensare che anche l’ospedale possa essere un luogo in cui si realizza il Vangelo di chi cura, annuncia e ama: il Vangelo che si fa tenerezza accanto al dolore.
La chiamata inattesa
Sono stato ordinato sacerdote il 5 gennaio 2017. I primi anni li ho vissuti come viceparroco in una comunità vivace, con un oratorio appena aperto e pieno di bambini e ragazzi, come assistente di un gruppo scout. Mi sembrava di essere nel posto giusto: entusiasmo, futuro, voglia di seminare.
Poi, un giorno, il vescovo mi chiese di andare in ospedale come cappellano. Inizialmente doveva essere solo una sostituzione temporanea, ma presto diventò il mio incarico stabile. Devo ammettere che, all’inizio, non ne fui contento. Mi sembrava di dover lasciare qualcosa di promettente per un luogo che immaginavo silenzioso e pieno di sofferenza. Avevo la presunzione di pensare di essere “sprecato”.
Ma ho imparato presto che la missione non è andare dove si vuole, bensì dove il Signore chiama. Non è frutto di una scelta strategica, ma di fiducia. Così sono entrato in ospedale con timore e insieme con la certezza che Dio volesse insegnarmi qualcosa. E lì ho scoperto che non ero affatto sprecato: anzi, proprio lì si può curare, annunciare e amare con autenticità. Con meno parole, ma con gesti più profondi. Con una presenza silenziosa che parla più di molte prediche.
Una missione che trasforma
In ospedale ho compreso che la missione non è solo dare qualcosa, ma lasciarsi toccare e cambiare nel profondo. Ciò che credi di portare agli altri ti ritorna moltiplicato. Spesso sono la loro fede, la loro forza e la loro speranza a evangelizzare te.
Ho scoperto quanto le persone attendano uno sguardo, una presenza, un segno che dica: *non sei solo*. Questo, credo, è lo sguardo di Cristo: non uno sguardo che giudica o risolve, ma che rimane accanto.
Lo sguardo nel tempo del Covid
Durante la pandemia ho vissuto uno dei periodi più intensi del mio ministero. Quando tutto era coperto dalle mascherine, gli occhi erano diventati l’unico spazio di umanità. Negli occhi dei medici e degli infermieri si leggeva la stanchezza, ma anche la forza. In quelli dei malati, la paura e la speranza insieme. Negli occhi dei familiari, spesso solo attraverso uno schermo, brillava la potenza di un amore che resisteva.
In quegli sguardi ho riconosciuto la presenza viva di Cristo: uno sguardo che non elimina la sofferenza, ma la abita con compassione. Guardare con gli occhi di Cristo nel dolore dell’altro: questa è la missione più autentica della Chiesa nel mondo della salute.
La gioia che nasce nei luoghi fragili
Lo sguardo di Cristo, però, non si posa solo sul dolore: si posa anche sulla gioia, sulla vita che nasce, sui segni di speranza che fioriscono nei luoghi più impensati. L’ospedale è sì un luogo dove si piange, ma anche dove si sorride, si ringrazia, si spera.
Ho vissuto momenti bellissimi nei reparti pediatrici, dove i bambini insegnano fiducia e leggerezza anche nella prova. Ricordo in particolare il Natale: tempo di festa che in ospedale può farsi difficile. Eppure, insieme a tanti, cercavamo di portare luce e calore. Mio padre vestito da Babbo Natale, i vigili del fuoco che lo accompagnavano nei corridoi, i doni e i sorrisi distribuiti: negli occhi dei genitori e del personale c’era commozione, nei bambini la meraviglia. In quei volti ho visto la forza della speranza che trasforma il dolore senza negarlo.
La vita che comincia
Un’altra scuola di speranza è stato il reparto di ostetricia, dove la vita comincia tra timori e attese. Durante il Covid celebravamo la Messa nei corridoi, su un carrello, perché le mamme potessero partecipare dalle stanze. Ogni benedizione, ogni gesto era un modo per dire: *Dio è qui, anche nel tuo sorriso e nella tua attesa.*
Nacque anche quello che scherzosamente chiamavamo “il rito delle tisane”: a fine giornata, un piccolo segno di vicinanza, una carezza di umanità. In fondo, la missione è proprio questo: esserci, restare, non scappare. Perché la vicinanza, quando è sincera, diventa Vangelo vivo, incarnato.
Lì dove Dio passa
Tra il pianto di un bambino, la stanchezza di un’infermiera, la preoccupazione di un paziente… lì Dio passa. Nel silenzio, negli occhi, nei gesti semplici, in una presenza che non cerca risultati ma si dona.
Mi torna alla mente sant’Ignazio di Loyola, che invita a non preferire la salute alla malattia, la vita lunga a quella breve, ma solo ciò che ci conduce al fine per cui siamo creati. In ospedale questo pensiero assume un significato nuovo: non si tratta di accettare la sofferenza come un bene, ma di riconoscere che anche nella fragilità può nascere un cammino di amore, relazione e grazia.
Ho visto persone che, pur nella malattia, hanno imparato un nuovo modo di amare; famiglie che nel dolore si sono ritrovate; personale sanitario stremato, ma ancora capace di servire con dignità, tenerezza e professionalità.
La pastorale che resta
È così che ho capito che la pastorale della salute è veramente missionaria: non perché proclama, ma perché *resta.*
Curare, annunciare, amare: è tutto qui. È lo sguardo di Cristo che passa attraverso i nostri occhi, le nostre mani, la nostra voce.
Se la missione è lasciarsi mandare dove il Signore chiama, allora posso dire che in ospedale ho imparato davvero cosa significa essere mandato: restare accanto, condividere la vita, guardare con amore e non distogliere mai lo sguardo.
Oggi, ripensando a quegli anni, sento di poter dire che l’ospedale è stata la mia terra di missione: il luogo dove ho scoperto il Vangelo vivo, dove la presenza è già annuncio, dove lo sguardo diventa preghiera, e dove ogni gesto d’amore – anche il più piccolo – diventa una carezza di Dio sul dolore del mondo.