di FRANCESCO OGNIBENE
Cos’è oggi «diritto»?
L’affermazione dell’umano o ciò che letteralmente arriva a sopprimerlo? La domanda – angosciosa – si fa incalzante davanti all’approvazione, ieri, a larga maggioranza nell’Europarlamento di una risoluzione che chiede energicamente di inserire il diritto all’aborto «sicuro, legale e gratuito» nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, ritenendo questa pratica 'minacciata' da decisioni come quella recente della Corte Suprema americana. È un passo non nuovo eppure mai tanto chiaro (e condiviso dall’assemblea, con rilevanti sebbene minoritarie eccezioni) da parte dell’istituzione rappresentativa Ue.
Perché non siamo più di fronte alla richiesta di sottrarre la pratica abortiva ai rigori del Codice penale, ma si arriva all’affermazione di quello che viene definito «diritto» – abortire – con tutto il formidabile peso di questa parola, al punto da chiedere che presto possa figurare all’articolo 7 della 'costituzione europea', dove oggi si scandisce che «ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare».
E allora chiediamocelo e chiediamolo, aperti a confrontarci su questo determinante terreno: cosa consideriamo oggi come «diritto»? Un principio che precede la convivenza sociale e che le è a tal punto necessario da fondarla, riconosciuto come tale dai cittadini? Perché se è questo, allora è la vita il diritto primario di ogni persona.
E non per concessione o convenzione, ma come fondamento. Siamo vita umana personale e originale non perché c’è scritto il nostro nome su un certificato di nascita – e quindi per un patto, necessariamente mutevole nel tempo – ma per uno status che ci appartiene e che determina la nostra dignità. Chiusa questa fonte, tutti i diritti a valle inaridiscono. Tutti, di chiunque, in ogni tappa e condizione del viaggio, sino alla fine. Non a caso proprio oggi la morte è oggetto di febbrile negoziato politico e giuridico.
Ma una vita senza diritto genera diritti senza vita, alla mercé di quel che viene stabilito in ogni stagione sociale. Se la vita non precede tutti gli altri diritti, indiscussa e protetta come massimo bene, l’orizzonte della civiltà cambia radicalmente. Allora tutto pare possibile e persino accettabile, incluso ciò che profetizzava Madre Teresa: «L’aborto è il più grande distruttore della pace». Apocalittica? A guardarsi intorno, si direbbe drammaticamente realista.
Il «diritto» può essere – ed è spesso diventato – l’istanza avanzata nel tempo da una componente della società, non necessariamente maggioritaria ma capace di presentare sotto una veste oggettiva e impersonale quella che invece è un’esigenza soggetta a cambiamenti (anche tra uno Stato e quello confinante, come accade negli Usa), una frontiera che si sposta in base a molteplici variabili. Saper riconoscere il passaggio da un concetto all’altro, e da cosa questo scarto di senso viene prodotto, è decisivo per essere lucidamente consapevoli di ciò che accade. Senza alzare rumorose barricate, con la mano sempre tesa a chi vuole sinceramente confrontarsi.
Ma con le idee chiare sul bene certo, la vita, ogni vita.
C’è margine per capirsi ancora tra chi sostiene l’una e l’altra concezione di «diritto»? La realtà ci dice che l’aborto è in sé la soppressione di una vita umana prima della nascita – dunque una ferita che si apre, un dramma possibilmente da prevenire o evitare –, ma ne emerge anche con evidenza che la difesa della vita umana nascente passa di necessità anche dal riconoscimento di altri diritti fragili.
Primi tra tutti quelli della madre che non può essere costretta a rinunciare alla vita, ma è costretta a rinunciare al figlio (anche al suo stesso desiderio) molto più spesso di quel che si crede. Per questo suona sinistra la minaccia della risoluzione di Strasburgo dell’auspicio di un giro di vite sui finanziamenti a chi le donne le aiuta nel compiere scelte davvero libere. La nota del Parlamento europeo parla di «preoccupazione per un possibile aumento del flusso di denaro per finanziare gruppi anti-scelta», una grottesca mistificazione di ciò che tante realtà del Terzo settore producono da decenni in termini di servizi primari (e il primo di tutti è l’accoglienza) per mamme in difficoltà.
Che in Europa si usi questo linguaggio di plastica è segno di un deragliamento.
Francesco Ognibene
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