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DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

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A scuola dalla “cultura degli hospice”

Il metodo delle cure palliative apre la strada a una sanità che si fa carico del malato, della sua sofferenza, e anche della famiglia. Le voci dei medici
19 Maggio 2023

di ENRICO NEGROTTI

C’è tanto ancora da fare. È forse la frase più ricorrente alla sessione tematica dedicata alle cure palliative «Il dolore che non ha voce. Sulla soglia, in ascolto dei bisogni dei sofferenti», svoltasi presso la Fondazione Opera Santi Medici di Bitonto (Bari) nell’ambito del 24° Convegno nazionale di Pastorale della Salute, organizzato dall’Ufficio Cei diretto da don Massimo Angelelli. Il quale ha ricordato che «il porsi in ascolto dei sofferenti è proprio la cifra distintiva di un hospice cattolico», come sottolineava già il primo documento elaborato dal Tavolo di lavoro degli hospice cattolici e di ispirazione cristiana Una presenza per una speranza affidabile. «Negli hospice – ha puntualizzato Carla Dotti, direttore sanitario della Fondazione Istituto Sacra Famiglia (hospice di Inzago) – è fondamentale che i clinici e gli infermieri sappiano ascoltare anche il silenzio, che può aumentare più la soglia si avvicina».

Una panoramica scientifica sulle cure palliative (Cp) è stata offerta dall’oncologo ed ematologo Marco Maltoni, che a Forlì è direttore della Unità di Cure palliative del Dipartimento oncologico della Ausl Romagna, ricordando che «i bisogni di cure palliative non sono solo di fine vita. L’Atlante globale delle cure palliative dell’Oms segnala che il 54,2% dei pazienti ne ha bisogno prima». Ma il punto cruciale riguarda il tipo: «Vogliamo che nei palliativisti italiani resti la fedeltà all’ispirazione dell’infermiera britannica Cicely Saunders – puntualizza Maltoni –, fondatrice delle moderne cure palliative, che aveva ben chiaro che per una sofferenza totale era necessaria una risposta globale: prendere in carico la persona e la sua famiglia, con continuità nel tempo e nello spazio». Le cure palliative «rispettando la naturalità della vita e della morte, e la proporzionalità degli interventi, senza accanimento né abbandono», hanno lo scopo di «garantire la miglior qualità della vita possibile, con un rapporto umano significativo: ricordando che essere al centro di un’attenzione affezionata e competente è sempre possibile». Infine Maltoni ha messo in guardia da una possibile legge che “regolamenti” l’eutanasia, a partire dall’esperienza dei Paesi che la hanno già adottata: « Le cosiddette salvaguardie cadono presto, e il valore “pedagogico” della legge finisce con l’incentivarne l’utilizzo. In Olanda l’eutanasia sta raggiungendo il 6% delle morti».

Le cure palliative sono state «una conquista di civiltà – ha sottolineato monsgnor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vicepresidente della Cei – ma è ora di aprire un ambito di ricerca». E ha fornito quattro indicazioni sulle modalità dell’accompagnamento: « Adottare l’etica del viandante, con il medico che si siede accando al malato in un gesto di prossimità; fare verità senza congiure del silenzio; ricucire le ferite, che è il più grande bisogno di un malato in un hospice; e infine dare prospettiva di speranza: non dire mai non c’è più nulla da fare perché c’è sempre tanto da fare». Ulteriori spunti di riflessione sono venuti dalla tavola rotonda moderata da Michele Montinaro, presidente della sezione di Bari- Bitonto dell’Associazione medici cattolici (Amci). Dalla necessità dello «stare accanto al malato per ascoltarne il dolore globale », Tommaso Fusaro (responsabile dell’hospice Marena di Bitonto) ha auspicato la «necessità di implementare le competenze che non vengono dal percorso accademico».

Filomena Puntillo (Rianimazione e Terapia del dolore Università di Bari) ha riconosciuto che «l’ospedale non è il posto migliore per le cure palliative perché si è legati a una visione di cura attiva. Positivo il lavoro a gruppi, come nelle breast unit dove l’approccio multidisciplinare è simile a quello delle cure palliative. Anche Domenico Milella (responsabile Rianimazione, Ospedale San Paolo di Bari) ha rimarcato che «l’insegnamento universitario punta a curare la malattia e non ad accompagnare il paziente. E non siamo preparati ad affrontare il dolore dei parenti». Dalla sua esperienza di infermiere prima in hospice e ora in terapia intensiva, Luca Laera (Ospedale San Paolo di Bari) ha tratto la conferma dell’importanza di stare accanto al malato, tipica dell’hospice. Don Antonio Stizzi (Ufficio di Pastorale della Salute, Arcidiocesi di Bari-Bitonto) ha ricordato che «occorre saper leggere il dolore, dietro c’è sempre un bisogno, a volte spirituale». Mentre Gaetano Bufano, consigliere regionale Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg), ha ricordato che «manca un anello di congiunzione tra ospedale e territorio, che assicuri una dimissione protetta: spesso la paura dei parenti è di non sapere come assistere a casa il proprio congiunto». Infine il vescovo Savino ha esortato gli operatori di hospice e di cure palliative a essere «sentinelle dell’I care e della responsabilità nei luoghi di cura».

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