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TAR del Friuli Venezia-Giulia: accolto il ricorso di un centro culturale islamico contro un’ordinanza comunale che vietava l’uso dei suoi spazi per le preghiere

La sentenza è stata emessa dalla sezione I del Tar alla fine del mese di maggio scorso e pubblicata il 27 giugno
19 Luglio 2024

Di recente il Tribunale Amministrativo Regionale del Friuli Venezia-Giulia ha accolto il ricorso del Centro culturale islamico Darus Salaam contro l'ordinanza emessa dal sindaco di Monfalcone nel novembre del 2023 in cui veniva inibito l’utilizzo di un edificio come moschea.

La sentenza (n. 23 del 2024) di accoglimento del ricorso è stata emessa dalla sezione I del Tar alla fine del mese di maggio scorso e pubblicata il 27 giugno.
“Occorre rilevare - si legge nel provvedimento - che le censure con le quali si contesta l'accertamento di fatto della modificazione della destinazione d'uso, con l'argomento che nei locali non si svolge in realtà in via esclusiva l'attività di preghiera, sono infondate”. I giudici ricordano anche che l'associazione, al momento dell'ordinanza, non era iscritta al registro unico per le imprese del terzo settore, iscrizione avvenuta solamente nel febbraio del 2024. Tuttavia, “il nodo centrale”, così definito dai magistrati, è quello relativo al capire se "la realizzata modifica di destinazione d'uso ammettesse o meno l'esercizio dei poteri sanzionatori comunali in materia di edilizia".

Secondo la sentenza, “La previsione regionale richiede – per l’attivazione del potere repressivo comunale – la dimostrazione che la nuova destinazione d’uso sia vietata dallo strumento urbanistico oppure che essa incida sugli standard in tema di gestione dei rifiuti, viabilità o sicurezza, mentre non è sufficiente la pura e semplice constatazione della formale diversità tra l’uso indicato nel titolo e quello effettivamente esercitato, né che la variazione abbia comportato il passaggio tra categorie funzionali diverse”.

Il Comune avrebbe dovuto provare, e non lo ha fatto, che vi fosse stata una “variazione essenziale che incida sull’ordinato e armonioso uso del territorio”, oppure che “influisca effettivamente sul fabbisogno di dotazioni territoriali, di infrastrutture, servizi, attrezzature, spazi pubblici o di uso pubblico e di ogni altra opera di urbanizzazione e per la sostenibilità ambientale, paesaggistica, socioeconomica e territoriale”. Secondo il Tar, l’amministrazione non ha nemmeno dimostrato che vi fosse una variazione essenziale d’uso. Anzi, i giudici hanno notato che lo strumento urbanistico ammetteva l’uso dell’immobile per “servizi e attrezzature collettive” tra cui “l’uso per il culto” indicato dai centri culturali e di preghiera.

Inoltre, il Tar ha sottolineato che potrebbe essere incostituzionale relegare la possibilità di aprire centri di preghiera solo a determinate aree del territorio, come pretendeva l’ordinanza comunale. A tal riguardo, ha sottolineato che, “in base all’art. 3 del d.m. n. 1444/1968, i luoghi di culto costituiscono opere di urbanizzazione secondaria in quanto “attrezzature di interesse comune” che devono essere previste dagli strumenti urbanistici al fine di concorrere a soddisfare gli standard fissati dallo stesso decreto (in termini, Corte Cost., n. 254/2019, par. 6.2)”.

Altro aspetto di criticità risulta dall’istruttoria “lacunosa”, ovvero dalla spiegazione “generica” e insufficiente dell’aumento del carico urbanistico che le moschee avrebbero determinato. L’ordinanza di chiusura, infatti, dava per scontato che adibire i locali a centro religioso avrebbe determinato una maggiore esigenza di servizi e attrezzature pubbliche, senza però dimostrarlo. “Era invece necessario un analitico e preciso confronto tra uno specifico standard previsto per la destinazione d’uso assentita dal titolo (direzionale) e il corrispondente specifico standard previsto per la destinazione d’uso modificata (religiosa), onde trarne in termini quantitativi l’effettiva incisione e la relativa misura”.

Infine, il Tar ha ritenuto opportuno puntualizzare che “la presente fattispecie differisce, sia sul piano normativo che fattuale, da quella esaminata dal T.A.R. Lombardia con la recente sentenza n. 832/2024. Sul piano normativo perché la disciplina regionale lombarda – diversamente da quella della Regione Friuli Venezia Giulia – prevede che tutti “i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire” (art. 52, comma 3 bis, della l.r. n. 12/2005), cosicché la relativa mancanza incorre perciò solo nella sanzione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001. Sul piano fattuale perché in quel caso, diversamente dal presente, l’uso a luogo di culto non era compatibile con la destinazione urbanistica vigente ed è stato pure ritenuto “in contrasto con l’art. 72 della l.r. n. 12/2005 (che impone l’approvazione da parte comunale di un piano per le attrezzature religiose ai fini della realizzazione di nuovi edifici di culto)” (così il T.A.R. Lombardia, n. 832/2024).