UFFICIO NAZIONALE PER LA PASTORALE DELLA SALUTE
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

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È l’ascolto la via umana per il fine vita

Nella nota dei vescovi del Triveneto l’alternativa al suicidio assistito
26 Ottobre 2023

di  FRANCESCO DAL MAS

«Primo compito della comunità civile e del sistema sanitario è assistere e curare, non anticipare la morte». Lo afferma chiaramente la nota pastorale «Suicidio assistito o malati assisti?» dei vescovi e della Commissione Salute della Conferenza episcopale del Nordest pubblicata martedì 24 (e della quale Avvenire ha dato conto sul quotidiano e online). Ascoltare e consolare – prendendosi cura – è dunque l’impegno suggerito alle comunità, di credenti e non.

Ma come? «Ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo, persone malate croniche a cui la medicina consente di sopravvivere, cosa che un tempo era impensabile – riflette il vescovo di Trieste, mons. Enrico Trevisi, che ha collaborato alla preparazione della nota –. Persone che ci costringono a fare i conti ancora di più con le domande sul senso della vita e del dolore.

Il dolore inteso in senso fisico, per il quale abbiamo le cure palliative. Ma c’è anche la sofferenza che arriva dalle domande e dal dover rinunciare a tutto quello che si faceva prima, e di non vedere un futuro migliore. Ecco, io penso che come Chiesa abbiamo la necessità di riflettere, di pensare a come accompagnare, come stare vicini a queste persone». Esiste solo la scorciatoia del suicidio assistito oppure – si chiede il vescovo – ci sono modalità per accompagnare queste persone? Tenendo conto che la vulnerabilità riguarda tutte le età. «Chi sono? Dove sto andando? Perché mi sta succedendo questo? Che prospettiva ho davanti? Penso che una società che si focalizza soltanto sull’autodeterminazione – quella di spegnere l’interruttore della vita – pratichi una scorciatoia.

Noi come Chiesa vorremmo segnalare che c’è anche una verità della vita sulla quale tutti siamo chiamati a interrogarci: sull’accompagnamento delle persone che hanno patologie gravi, inguaribili, ma restano curabili, sia dal punto di vista del corpo che dello spirito». Il vescovo ricorda che l’abbandono terapeutico talvolta lo subisce non soltanto il paziente, ma anche la famiglia: «Serve anche, come comunità cristiana, che ci rendiamo conto che c’è quasi un nuovo ministero da istituire, una diaconia da rilanciare. Se c’erano ordini religiosi che nel passato hanno fondato ospedali e case di cura, oggi c’è una malattia dentro le case, dentro l’appartamento del vicino di casa, che ci mettono in grande discussione».

Va dunque reinterpretato il ministero della consolazione. Paolo Pesce è medico e bioeticista. Collabora con la diocesi di Trieste. E lo ha fatto anche per l’elaborazione della nota. «Il documento dei vescovi – spiega – mette al centro la persona, sottolineando l’aspetto antropologico della vulnerabilità, oggi spesso dimenticato, cioè che siamo tutti esseri imperfetti, e prima o poi colpiti da malattie o condizioni fisiche che sono l’espressione del nostro limite». Il medico ricorda che la maggior parte delle malattie è inguaribile (pensiamo al diabete, alle conseguenze dell’ictus o a tutte le malattie neurodegenerative): «Inconsapevolmente, la medicina guarisce poco ed è prevalentemente chiamata a curare, nel senso di prendersi cura della persona. Ma non è sempre facile “prendersi cura” delle persone “inguaribili”.

A volte mancano le risorse economiche dei servizi sanitari e sociali, che pure sono chiamati a tutelare i più deboli. Più spesso si tratta di un fatto culturale che porta a ritenere che la vita abbia perso la sua dignità e non abbia più motivo di essere vissuta». Sono i familiari che portano su di sé la maggior parte del carico di assistenza: «La stragrande maggioranza lo fa con amore ma anche con molto sacrificio. È indispensabile che il Servizio sanitario investa in modo adeguato nei servizi di cure palliative e di assistenza domiciliare, e garantisca, assieme ai servizi sociali, tutte le necessità assistenziali.

Allo stesso tempo – insiste Pesce – è indispensabile agire sul piano culturale e formativo, in particolare sulle relazioni umane, da rinsaldare specialmente con chi vive la pesante prova della malattia. Questo lo si realizza anche nelle piccole cose, come imparare a preoccuparsi e ad aiutare le persone che sappiamo ammalate o sole che abitano vicino a noi nei nostri condomìni».

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