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La Sanità ha bisogno di infermieri Ma sono trattati male e “fuggono”

La presidente della Federazione degli ordini dipinge un quadro realistico e allarmato del futuro a breve termine
18 Ottobre 2023

Mancano già 65mila operatori e la flessione continuerà. Perché oggi è una professione “piatta”: si comincia e si finisce la carriera nelle stesse condizioni, fatta salva l’anzianità

di BARBARA MANGIACAVALLI - Presidente Fnopi Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche

Con l'inverno demografico alle porte e una popolazione anziana sempre più sola, fragile e indifesa, l'Italia non può permettersi di non avere un adeguato numero di infermieri. Questo l’accorato allarme che la FNOPI - la Federazione nazionale che riunisce e rappresenta 102 Ordini provinciali - lancia ormai da tempo su tutti i tavoli istituzionali, sulla base di numeri, statistiche e proiezioni che confermano una carenza cronica (e in crescita) dei professionisti che quotidianamente garantiscono l'assistenza nel nostro Paese, in ospedale come sul territorio. Gli infermieri rappresentano la quota maggiore di tutti gli operatori del Servizio Sanitario Nazionale. Considerando anche i liberi professionisti puri, i dipendenti di privato e terzo settore, i pensionati ancora iscritti all'Albo, si arriva a quota 456mila. S embrano tanti eppure sono pochi, in rapporto alla popolazione in generale e alla popolazione anziana in particolare: ne mancano almeno 65.000 sia secondo la Federazione, sia in base alle stime recenti della Corte dei conti. Un sistema sociosanitario, pur con punte di eccellenza nelle fasi di diagnosi e cura, non regge l'urto se la filiera assistenziale resta ancorata a vecchie logiche e a vecchi modelli. Il mondo sta cambiando rapidamente, ma la professione infermieristica in Italia resta quella che era vent'anni fa. E i nostri giovani se ne accorgono. Nonostante i dati di Almalaurea – il consorzio interuniversitario che raccoglie i risultati occupazionali dei laureati di tutte le professioni - continuino a confermare come laurearsi nel campo delle professioni sanitarie significhi trovare immediatamente lavoro, il calo di domande per i test di ingresso alla triennale abilitante in Infermieristica certifica anche per questo anno accademico una sofferenza del settore.

N on è vero che nessuno in Italia voglia più diventare infermiere: in alcune aree, specie nel Meridione, le domande doppiano i posti disponibili, ma nel Nord spesso neppure lo raggiungono. Così come non è vero che il nostro sistema formativo sia in crisi: gli infermieri laureati nel nostro Paese sono tra i più ricercati nel resto del mondo, proprio per l'alto standard di preparazione teorica e tirocinio: ogni anno tra i 3.000 e i 3.500 vanno all’estero dove le retribuzioni sono maggiori (anche del triplo) e dove la carriera dà sbocchi di alto livello. Oggi all’estero lavorano circa 30.000 infermieri nati nel nostro Paese. Soprattutto, non è più vero che un infermiere in Italia compia studi universitari più brevi di altre professioni sanitarie: in molti scelgono di accedere alla laurea magistrale, di specializzarsi frequentando master, di intraprendere la via dell'insegnamento e della ricerca tramite dottorati. L' Infermieristica si evolve e cambia, come la società in cui opera. Ma la cornice organizzativa, contrattuale, culturale in cui il Sistema Italia li costringe, resta immutata e fa della nostra professione una professione “piatta”, che significa iniziare e finire la carriera nelle stesse condizioni, fatta salva qualche progressione frutto di automatismi legati all'anzianità di servizio. Si fa un gran parlare di mancata attrattività delle professioni sanitarie nel Paese. Noi infermieri ci siamo sempre stati. Durante la pandemia abbiamo “semplicemente” continuato a fare quello che abbiamo sempre fatto e qualsiasi cittadino, qualsiasi paziente lo sa bene. Come lo sanno i giovani che scelgono questo percorso professionale, apprezzandone le nobili radici, il valore e i valori del nostro agire quotidiano, le prospettive di una figura assistenziale sempre più a tutto tondo, anche di fronte alla crescente digitalizzazione della sanità. L a professione attrae, ma tutto il resto invece sembra respingere e costringere i nostri più giovani e promettenti infermieri a guardarsi attorno e cercare prospettive di carriera fuori dal Servizio Sanitario Nazionale o, peggio, fuori dall'Italia. Doppia sconfitta: perché abbiamo investito nella loro formazione (circa 30.000 euro a infermiere) che regaliamo di fatto ad altri Paesi capaci di valorizzarla adeguatamente, non solo dal punto di vista economico ma attraverso un riconoscimento sociale e una dignità professionale che purtroppo restano carenti in Italia. Dove per gli infermieri vale ancora la regola dell'“uno vale uno”, o anche “uno vale l'altro”, in quanto non vengono per nulla riconosciute dall'attuale ordinamento tutte le competenze specialistiche acquisite, il che significa lavorare in Pronto soccorso, in Ortopedia, così come in Terapia intensiva o sul territorio con le stesse probabilità e con la concreta possibilità di ruotare continuamente all'interno del Sistema fino al pensionamento.

Senza contare il rischio di burnout legato al sistematico ed eccessivo ricorso agli straordinari (data la carenza di personale), al repentino cambiamento di ambiente professionale, all'organizzazione del lavoro su turni, anche notturni. Per non parlare dell’assistenza sul territorio, dove gli standard previsti dal decreto di applicazione del Pnrr prevedrebbero almeno 20mila infermieri di famiglia e comunità, ma l’ultimo rilevamento (al 2021) della Corte dei conti (confermato da un recente rapporto Agenas) non arriva a identificarne nemmeno duemila. Il loro apporto è fondamentale per gestire tutta la domiciliarità, per le case e gli ospedali di comunità, per il sostegno e l’assistenza ai cronici che ormai in Italia superano i 22 milioni, di cui 14 milioni con multi-cronicità.

Queste sono le principali ragioni per cui “la più bella professione al mondo”, la “professione del futuro” sta vivendo la sua crisi più profonda. E incrociando i dati dei pensionamenti previsti entro il 2029 (che raggiungono le 100.000 unità) con il numero insufficiente di nuovi laureati, sappiamo già con certezza che non avremo un numero sufficiente di infermieri da qui alla fine del decennio. Anche nel quadro dell’avanzamento tecnologico in atto, la carenza di infermieri rischia di pesare molto sull’assistenza. La Sanità Digitale è, a certe condizioni, un’occasione per la tutela della salute nel Paese, alla quale le professioni infermieristiche possono dare un importante contributo ed essere a loro volta valorizzate, in particolare proprio per tutta quella parte che si attua sul territorio. Lo sviluppo delle competenze relazionali digitali deve diventare parte dei percorsi formativi delle professioni di cura, e in questo ambito la partecipazione della persona assistita e del caregiver al processo di cura è un elemento centrale; la sua consapevolezza rappresenta un’opportunità perché influisce sugli esiti di cura migliorando al con-tempo la sua percezione del servizio ricevuto.

S appiamo quindi con certezza che di infermieri avremo sempre più bisogno: già ora il rapporto di infermieri per mille abitanti è di 6,2, rispetto ad una media UE di circa 9,5 e alla previsione OCSE di 8,5. Soluzioni tampone non bastano; non può risolversi tutto arruolando infermieri dall'estero (con tutte le difficoltà del riconoscimento dei titoli e della conoscenza della lingua) o cercando di richiamare progressivamente in Italia i colleghi precedentemente emigrati. È il momento di porre la “questione infermieristica” come un tema centrale per il futuro del Paese. Senza una riforma strutturale del percorso formativo e dell'inquadramento giuridico-contrattuale dei nostri professionisti ogni sforzo rischia di essere vano e fine a se stesso.